Le aree interne a rischio di progressivo abbandono, quelle urbane nelle quali la coesione sociale viene messa in crisi da una modernità che desertifica il tessuto relazionale: è qui che prevalentemente nascono le cooperative di comunità. Sono 188 quelle censite da Aiccon (Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit) per conto della Scuola delle Cooperative di Comunità, Legacoop Emilia-Romagna e Confcooperative Emilia-Romagna.
“Quasi 2 cooperative di comunità su 3 sono localizzate in un’area interna, ma si registra anche una quota rilevante nelle aree periurbane – rilevano il direttore di Aiccon Paolo Venturi e la ricercatrice Serena Miccolis – . Nel triennio 2018-2020 si registra un forte incremento del fenomeno trainato soprattutto da specifiche aree territoriali: Toscana, che ne conta 45, Abruzzo (33), Emilia-Romagna (20). Nello stesso arco di tempo è nata più della metà delle cooperative mappate (57%)”.
La forma giuridica maggiormente diffusa è quella della cooperativa di produzione e lavoro (44% delle realtà mappate), rilevante anche la presenza della cooperazione sociale (20%). Ma la cooperativa di comunità solitamente coinvolge una pluralità di settori di intervento, in primis il turismo (60%), la conservazione e la tutela ambientale (47%) e l’agricoltura (38%), spesso collegati con gli asset naturali e culturali.
Attività che generano un insieme di impatti su molteplici ambiti collegati ai beni comuni e al territorio, ad esempio attraverso la creazione e lo sviluppo di filiere ed economie di luogo non strettamente turistiche (segnalato dall’80% delle realtà) o la rigenerazione del patrimonio (77%), ma anche al benessere delle comunità territoriali soprattutto in termini di socialità e vita comunitaria.
Grazie all’indagine è stato possibile approfondire alcuni aspetti quali-quantitativi. I meccanismi generativi maggiormente diffusi sono legati alle condizioni di difficoltà dei territori in termini di bisogni comunitari (83%) e le vulnerabilità del contesto territoriale (58%). L’azione di queste organizzazioni si caratterizza per l’importante coinvolgimento di una pluralità di stakeholder: la quasi totalità delle cooperative rispondenti (93%) coinvolge i beneficiari diretti delle attività appartenenti alla comunità territoriale e le istituzioni pubbliche (88%). Mediamente ogni cooperativa nel 2019 è riuscita a coinvolgere 14 stakeholder e più di 2.500 persone appartenenti alla comunità territoriale e non.
“Dopo tanti anni non esiste ancora un riconoscimento giuridico nazionale delle cooperative di comunità - ricorda Roberta Trovarelli, presidente della Scuola delle Cooperative di Comunità - mentre sono state varate 11 leggi regionali dedicate a questa forma specifica di impresa. Una regolamentazione nazionale deve tenere conto della natura multifunzionale e multisettoriale di queste realtà che presuppongono relazioni a mutualità multipla e sono fortemente legate ai territori in cui nascono”.
“Parole chiave come territorio, persone e bisogni – sottolinea il presidente di Legacoop Emilia-Romagna Giovanni Monti – si incrociano in un processo di rigenerazione che, partendo dalle persone, sintetizza l’attenzione al territorio e al suo sviluppo, alla collettività mantenendo la rotta sul lavoro e sulla redditività affinché aree interne e urbane fragili possano diventare attraenti, in particolare per i giovani e per forme di imprenditorialità innovativa”.
“Queste esperienze dimostrano l’attualità del modello cooperativo – osserva il presidente di Confcooperative Emilia Romagna Francesco Milza – che sa rimodellarsi per accogliere bisogni nuovi soddisfacendoli all’interno di attività che sono sociali e imprenditoriali. Va sottolineato il fatto che le cooperative di comunità risvegliano risorse dormienti, già presenti nei territori e non valorizzate, rigenerandole”.
Nella foto principale, un’iniziativa della Scuola delle Cooperative di Comunità nell’Appennino reggiano. Nelle foto in gallery, la presentazione della ricerca venerdì 28 gennaio scorso a Bologna.